“Che il cielo ci cada sulla testa”: Alessandro Magno e l’ambasceria celtica del 335 a.C.

Credo di avere ‘recuperato’ parte di questo testo da qualche parte, ma non ricordo da dove; lo integro, modificandolo, con
La religione dei Celti di E. Campanile, in Le religioni antiche
I Taurisci. Un popolo celtico tra l’Adriatico e la Pannonia di M. Gustin, in Taurini sul confine

 

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Si tratta dell’episodio narrato da Tolomeo I Sotere [generale macedone che regnerà poi sull’Egitto, alla morte di Alessandro e che scrisse una storia della spedizione del Macedone] e ripreso da Strabone e Arriano: nel 335 quando il Macedone era in guerra con la popolazione tracia dei Triballi, venne presso di lui una delegazione di celti di Adria al fine di proporsi come mercenari e garantirsi la sua amicizia.
Qualche anno dopo un’altra delegazione di celti si recò a Babilonia per i festeggiamenti in onore di alessandro.

Nel 336 a.C. Filippo II di Macedonia venne ucciso da una delle sue guardie del corpo, utilizzando per strana coincidenza una spada celtica (ARR., An, I, 4, 6; STRAB. VII, 3, 8). Quando la spada venne rimossa, la si descrisse come spada celtica corta e a lama larga, con un’impugnatura d’avorio su cui era incisa l’immagine di un carro. I Macedoni videro nell’accaduto il compiersi di una profezia che aveva messo in guardia Filippo dai carri.
Divenne quindi re di Macedonia il figlio di Filippo, Alessandro (356-323 a.C.). Ben presto egli iniziò ad esercitare la propria autorità come sovrano di tutti gli stati greci; quindi stabilì di operare per il consolidamento delle sue frontiere settentrionali.

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Stando a Tolomeo (fr.  138, 2 Jakoby) nel 335, durante la guerra contro i Traci Triballi, Alessandro ospitò una delegazione celtica “da Adria”; Arriano, che in cita Tolomeo, afferma che il sovrano macedone ricevette amichevolmente i Celti e che diede per loro una festa.

Erano, dice Arriano, “uomini arroganti nel contegno e di alta statura”. Sia Arriano sia Strabone riportano un fatto particolare:

Dice Tolomeo Lagide che in questa spedizione si unirono ad Alessandro i Celti della zona di Adria, per rapporti di amicizia e ospitalità. Il re li accolse benevolmente e durante una bevuta gli chiese dui cosa avessero particolarmente timore, pensando che avrebbero detto di lui. Ma quelli risposero che non avevano timore di nulla, se non che il cielo gli cadesse addosso.

(Strabone VII, 3, 8).

Gli ambasciatori celtici tuttavia aggiunsero che essi “ponevano sopra ogni cosa l’amicizia di un uomo come lui”. Alessandro, forse un po’ sconcertato, stipulò con loro un trattato di amicizia. In seguito, riporta Arriano, Alessandro commentò che, per essere barbari, i Celti avevano un’opinione ridicolmente alta di se stessi.

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I Celti sono di taglia grande e hanno di se stessi una grande opinione… (Alessandro) domandò ai Celti (che si erano recati da lui in ambasceria) che cosa temessero di più, nella speranza che la sua fama si fosse spinta fino nel paese dei Celti o più lontano ancora e che gli dicessero che era lui che temevano di più al mondo. Invece la risposta dei Celti fu tutt’altra di quanto sperava.
Lontani da Alessandro, giacché abitavano delle regioni di difficile accesso e vedevano che Alessandro si indirizzava verso altre mete, essi, gli dissero, non avevano nessun altro timore se non che il cielo cadesse loro sulla testa. Allora egli li chiamò suoi amici e se li fece alleati, poi li congedò, aggiungendo soltanto che i Celti erano dei gran fanfaroni.

(Arriano, Anabasi I, 4)

Sembra che Alessandro e i suoi storici abbiano in qualche modo frainteso l’effettivo valore di questa affermazione dei Celti. Mentre indubbiamente dichiaravano in tal modo di non aver paura di Alessandro, essi facevano ricorso a una formula rituale allo scopo di enfatizzare le loro buone intenzioni e affermare il desiderio di giungere ad una pace fra eguali.
Infatti le loro parole costituivano una forma di giuramento che sarebbe stata ritrovata anche un millennio più tardi in alcuni trattati di diritto irlandesi, formula per mezzo della quale un individuo si assumeva di mantenereun impegno chiamando in causa la propria incolumità personale ma anche evocando alcuni elementi naturali. “Terremo fede a questa promessa a meno che cada il cielo e ci schiacci, oppure si apra la terra e ci inghiotta, oppure si alzi il mare e ci sommerga”.
Questo incontro tra Alessandro Magno e i Celti presso le rive del Danubio nell’anno 334 a.C. fu assai significativo. Si trattava del primo incontro tra Celti e Macedoni in qualità di eguali; sembra inoltre che il trattato di amicizia stipulato in questa occasione sia durato per tutto il resto del regno di Alessandro, anche nel periodo in cui egli lasciò prive di difese le sue frontiere settentrionali per portare il suo esercito in Asia Minore e dare vita al sua immenso impero.
Arriano, ancora citando Tolomeo, afferma che nel 323 a.C. alcuni legati celtici si recarono a Babilonia per incontrare Alessandro, in quel momento occupato in progetti volti ad aprire una via d’acqua che partendo dalla foce dell’Eufrate giungesse fino in Egitto. Poco tempo dopo, Alessandro improvvisamente si sentì male nel corso di una festa, vittima forse della febbre, forse di un avvelenamento, e a distanza di dieci giorni morì.

Alessandro il Grande all’assedio di Rodi – Angus McBride
Sulla spavalderia dei delegati celtici:

Sarebbe pazzo o insensibile chi non temesse nulla, nemmeno un terremoto o una tempesta, come si dice facciano i Celti: coraggioso è chi supera le paure facendosi animo
Aristotele, Etica Nicomachea, III, 7, 7.

Su questo punto mi soffermo sullo scritto di E. Campanile (p. 614), che rinviene nella cultura indoeuropea il senso di tale affermazione:
“Nella cultura indoeuropea, infatti, il cielo era ritenuto essere di pietra e tracce lessicali di tale concetto permangono in piena età storica: in avestico [lingua del ceppo iranico] asman– significa sia pietra che cielo, e lo stesso vale per il vedico [sanscrito] aśman-; in greco stesso il termine ākmōn (incudine, in quanto originariamente costituita da una grossa pietra) è glossato da Esichio con ouranòs. I Celti, quindi, avevano semplicemente conservato un’antica credenza indoeuropea di cui si ha traccia anche in Grecia, e con essa l’antichissimo timore che questa pesantissima volta potesse crollare sull’umanità: nulla, dunque, di particolarmente irrazionale, ma solo una forma di attardamento su posizioni culturali un tempo comuni a tutte le genti indoeuropee”.

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